TECNOLOGIA E CULTURA SONO INSEPARABILI, CHI SI OCCUPA DI CYBERSECURITY FAREBBE BENE A RICORDARLO.
Intervista VIP a Peppino Ortoleva
Peppino Ortoleva, professore di storia e teoria della comunicazione, curatore di musei e mostre sulle fenomenologie del cambiamento sociale e tecnologico, editorialista per i quotidiani del Nord Est, è autore di molti saggi di successo. “Miti a bassa intensità”, “Sulla viltà”, “La comunicazione imperfetta” con Gabriele Balbi, sono solo alcuni dei titoli più recenti. In questa intervista analizza, per la rivista Cybersecurity Trends, la fragilità, i punti di debolezza ma anche le potenzialità di sviluppo della Rete. Il suo è un invito a riflettere su come rendere più efficaci le norme a garanzia dei navigatori – utenti, che spesso si ritrovano nel mare aperto di Internet traditi nelle aspettative di libertà e di crescita della conoscenza che li avevano animati lungo il percorso, scoprendo di essere invece esposti a pericoli invisibili, molto difficili da prevedere e governare.
Professore, il popolo dei cybernauti ha superato i 5 miliardi, viviamo la connettività in una dimensione omeopatica. Potenza e fragilità si toccano. Il sociologo Vanni Codeluppi ha scritto recentemente un saggio sui tradimenti del digitale, che la dice lunga sullo stato di incertezza e di paura che stiamo vivendo. Comincerei col chiederle: siamo a un nuovo, delicato capitolo della “Società del rischio”, per usare la celebre definizione di Ulrich Beck?
Tutte le società si possono definire del rischio, nel senso che nessun corpo collettivo può esistere compatto, granitico sotto ogni profilo. Va comunque precisato che nella società dove ci troviamo a vivere vi sono alcuni rischi particolarmente evidenti, che giustificano la definizione dello studioso tedesco. Oltre il rischio ecologico, viviamo da ottanta anni con la guerra atomica sopra la testa, una spada di Damocle, un pericolo per l’umanità tutta. È in questo fragile ecosistema globale che si innestano tutti i pericoli connessi alla rete.
Possiamo prenderli in esame?
Innanzi tutto, va detto che la rete, a differenza di molti altri aspetti della società, appare sregolata proprio in virtù del carattere globale che la connota. Intendo dire che al di là di tutte le buone intenzioni, le norme, che certamente esistono, sono tali perché ci sono Stati che le varano e le fanno applicare. Il nostro Pianeta è ancora dominato dalle entità statali, il “leviatano” non è scomparso come molti hanno sostenuto, infatuati dal fenomeno della globalizzazione. Insomma, le leggi esistono solo in virtù degli Stati che le fanno osservare, e possono farlo solo all’interno di territori ben definiti.
L’”ubiquità” della rete mette a nudo la difficoltà di governarla
Ci eravamo battuti per un pianeta senza confini, dove la libera circolazione di persone e merci avrebbe dovuto garantire crescita e progresso. Siamo degli illusi?
La realtà è lontana da tanta superficiale retorica. Non voglio negare l’esistenza di un corpus normativo sovrannazionale, che giustifica l’attività di soggetti come l’Unione Europea, il punto su cui vorrei insistere è, però, la centralità degli Stati nel recepimento delle normative continentali. Il risultato di questo dualismo tra regole transnazionali e diritto nazionale è che non abbiamo, a fronte della “ubiquità” della Rete, nessuna entità di dimensioni tali da poterla realmente governare.
Non pensa che qualcosa si stia facendo, se pensiamo al GDPR e all’IA Act che hanno regolamentato le problematiche inerenti alla privacy e all’uso delle macchine intelligenti?
Quello che siamo riusciti a fare riguarda alcuni grossi player economici. Penso alla recente presa di posizione di un giudice federale degli USA che ha sanzionato Google per monopolio applicando una legge fondamentale del sistema statunitense che è quella contro i trust. Un passo avanti importante che si può verificare in culture giuridiche come quelle degli USA o dell’Europa ma altrove, mi chiedo: il fenomeno Internet ha proporzioni gigantesche che rendono poco adeguate le misure di governance fin qui esperite. Si è ormai creato un netto spartiacque che spiega molte delle contraddizioni che ci ingabbiano.
A che cosa si riferisce?
Alla dicotomia, che segna anche l’attuale orizzonte geopolitico: da un lato le autocrazie, dove vigono sistemi di governo illiberale che cercano di tenere la rete sotto uno stretto controllo, l’’esempio più importante e conosciuto è quello della Cina; cui si contrappongono i sistemi liberaldemocratici che lasciano alle Authority di settore la possibilità di verificare l’applicazione delle norme vigenti. In questa dinamica accade che nel nostro Occidente si concreta il rischio di una gestione selvaggia del web, a causa della latitanza di qualsiasi intervento di disciplina e controllo.
Alla luce della sua analisi verrebbe da dire che l’idea coltivata da Stefano Rodotà sulla possibile edificazione della “Costituzione di Internet” è destinata a rimanere nel regno delle utopie. È un’analisi corretta?
Per il momento siamo costretti a riconoscere che questa grande intuizione non ha trovato il soggetto istituzionale che la possa rendere “realtà effettuale” per dirla con linguaggio machiavellico. Alla base di ogni costituzione, diceva un grande teorico come Kelsen, ci deve essere una legge fondamentale che ne certifichi la possibilità di farla valere; serve, scriveva lo studioso nella “Teoria generale del diritto” una Grundnorm, una sorta di nocciolo duro perché si possa attuare la costituzione stessa, e che dice: “questo sistema normativo è capace di farsi rispettare”. Quello che invece vediamo è da un lato l’esercizio dell’autoritarismo nei governi dittatoriali, senza alcuna garanzia per utenti e cittadini, senza costituzioni valide e rispettate, dall’altro l’impotenza, in molti campi, delle democrazie che definiamo occidentali per semplicità. Ma c’è un ulteriore rischio, di natura politica (parlerò dopo degli aspetti legati alla comunicazione), che deve allarmarci: che la Rete diventi uno strumento di guerra.
Quando la Rete diventa strumento di guerra
Come si fa a limitare questa possibilità, che si sta manifestando in questi ultimi mesi, con esiti drammatici?
Quello che sta succedendo adesso fa capire che la rete è un pezzo delle guerre che si combattono nel pianeta. La guerra ibrida, che la Russia sta portando avanti in Ucraina servendosi della rete, può essere efficace perché è evidente che vi sono partner alleati che la stanno aiutando.
Venendo agli aspetti comunicativi, dobbiamo dedurre che i social hanno una “malattia intrinseca” che ne favorisce l’uso distorto?
È innegabile che i social presentano per loro natura alcune problematiche non trascurabili. A partire dal fatto che si sostanziano di una forma di comunicazione intermedia, che si colloca tra oralità e scrittura. Questo fa sì che riescono a coniugare la dimensione irresponsabile dell’oralità con la permanenza nel tempo e l’autorevolezza della scrittura. Un mix pericoloso. Anche le voci dei bar fanno opinione se diffuse sui social. Come regolare tutto questo?
Ritorna il tema centrale della nostra conversazione. Se interpreto bene il suo pensiero, regimentare i social è un esercizio impossibile oltre che vano. Non ci resta che la resa senza condizioni?
La velocità della divulgazione che corre sui binari social è spaventosa, per altro questi strumenti possono essere completamente gestiti da algoritmi, con la possibilità di diffondere miliardi di messaggi da un’unica fonte, senza alcuna responsabilità legale per quello che viene scritto. Si potrebbe dire che le norme sulla diffamazione possono essere applicate sui social, nel senso che se diffondo la diffamazione contro una persona possono farmi causa, ma solo nel caso in cui sottoscrivo le mie affermazioni. Ma come sappiamo l’anonimato la fa da padrone insieme all’uso degli pseudonimi nei documenti in rete. Mentre nella carta stampata esiste una responsabilità del giornalista, del direttore e dell’editore a seconda dei regimi ordinamentali che vigono nei diversi paesi, on line l’anonimo la può fare franca. Così di fatto risulta impossibile controllare il contenuto di tutte le conversazioni che attraversano Facebook o X. Non mi pare sia più sostenibile un simile assetto.
Non pensa che proporre un sistema sofisticato di verifica delle fonti e dei contenuti non finirebbe col rivoluzionare l’universo dei social?
Rispondo utilizzando la sua stessa domanda: perché non rivoluzionarlo? La libertà di pensiero e anche di stampa non è assoluta in nessun sistema né cultura giuridica. Soffermiamoci su chi si occupa di sicurezza, focus di questa rivista: per la cyber security è un problema decisivo sapere e capire da dove arrivano i messaggi offensivi, lesivi della dignità che minano reti e sistemi. Perché non concordare con delle convenzioni internazionali una punizione degli autori di messaggi malevoli, che generano rischi sul fronte delicato della sicurezza della collettività? Il problema non è di facile soluzione, ma dobbiamo metterci nell’ottica di affrontarlo.
Il dark web, una sfida per la cyber security
Veniamo al dark web, la faccia oscura di Internet. Le difficoltà normative di cui abbiamo parlato si presentano amplificate in questo ambito, con la conseguenza che il nostro senso di impotenza assume forme parossistiche. Come uscirne?
Nel dark web si dà per scontata non solo la libertà di parola, ma anche l’esercizio totalmente sregolato dei crimini più efferati dalla pedofilia al traffico di armi. Sembra di trovarsi come in certi quartieri periferici delle città: le forze dell’ordine sanno che vengono svolte molte attività illecite, ma si astengono in generale dall’intervenire perché preferiscono (la mia è un’ipotesi un po’ azzardata ma forse non del tutto campata in aria) che la delinquenza rimanga “confinata” in un certo ambito.
Una zona volutamente franca, eslege come dicevano i giusnaturalisti, da tenere sotto controllo da lontano. L’aspetto più controverso riguarda i contenuti pedopornografici. Nel mondo occidentale la pornografia è stata come è noto liberalizzata con due uniche eccezioni: il sadomasochismo estremo che porta a lesioni gravi o persino alla morte e la pedofilia. La pedopornografia è il limite estremo al quale non si dovrebbe mai arrivare. Oggi sta accadendo, è questo il nodo cruciale, che non siamo in grado di individuare chi detiene questi contenuti sul proprio computer.
Il controllo delle forze dell’ordine scatta nel momento in cui un soggetto viene incriminato per comportamenti criminali, veri o presunti, solo a quel punto si va a setacciare il PC. Il tema su cui riflettere non riguarda il caso degli individui indagati che spesso presentano gravi patologie, riguarda la presunta normalità e quotidianità del dark web che consente il recupero di contenuti e immagini raccapriccianti senza che ci sia alcun responsabile. È evidente che ci sono dei vuoti normativi e gravi difformità che vanno sanate.
Molti dei problemi che Lei ha sollevato derivano da una visione della tecnologia che tende ad assolutizzarla, sganciandola dall’evoluzione della società. Come si fa a correggere il tiro?
Quello che solleva è un fattore cruciale che va chiarito. La tecnologia è un fatto culturale legato al linguaggio, alla comunicazione in tutte le sue forme e molto spesso anche alla capacità di chi la produce di elaborare contenuti originali. La cultura nel suo complesso è un fatto tecnologico, si serve di tecniche per svilupparsi e diffondersi. Il “tam tam” era ai primordi della civiltà una raffinata tecnologia, anche la musica lo è, come gli strumenti musicali che sono parte della storia della tecnologia, sono utensili con caratteristiche tecniche precise. Elenco ed esempi potrebbero continuare a dimostrazione che la separazione tra tecnologia e cultura è artificiosa, ed è stata interiorizzata dalle professioni. Pensiamo agli ingegneri che si presentano come conoscitori solo della tecnologia e ai letterati, storici e filosofi che fanno esattamente l’opposto, vantandosene.
Perché nasce un simile equivoco?
Questa opposizione nasce da un errore antichissimo della cultura occidentale che da sempre tende ad opporre materia e spirito. La cultura avrebbe a che fare solo con lo spirito, la tecnologia con la materia: questa in soldoni la tesi di fondo. Tendiamo dunque a separarli arrivando a errori molto gravi. Uno dei motivi per cui lo sviluppo del web ha travalicato qualsiasi tentativo di governance risiede nel fatto che per troppo tempo è stato visto come un fatto puramene tecnico, i cui contenuti poco contavano.
Da questa miopia ha tratto origine la mitizzazione del web come progresso puro in una prima fase, in seguito l’attenzione si è spostata sui contenuti, e si è così passati alla posizione contraria: il web ci sta portando al disastro, perché sta cambiando la nostra civiltà. È evidente che bisogna ritrovare un equilibrio nel modo di vedere questi fenomeni. Dobbiamo, detto in sintesi, sforzarci di guardare socialmente e culturalmente la tecnologia e di osservare tecnologicamente la cultura. Mi rivolgo in particolare a chi opera nel campo della cyber security: se volete migliorare la protezione degli asset a qualsiasi livello non dovete commettere il medesimo errore, separando le due sfere della tecnica e della cultura.
Oggi tendiamo a enfatizzare la dimensione della responsabilità sociale e civile dell’impresa in tutte le sue molteplici sfaccettature. Le chiedo in conclusione: siamo maturi per attuare questi principi o rimaniamo al di sotto di una certa soglia di valori, come spiega molto bene nel suo saggio “Sulla viltà”?
Il concetto di responsabilità può certo essere letto in chiave giuridica, ma per me è profondamento radicato nella dimensione etica. Le scelte dipendono da noi. Spesso si tende a trovare alibi, si ritiene perciò che le persone non siano responsabili per i loro atti. Prevalgono logiche che attribuiscono la responsabilità delle scelte alla tecnologia troppo potente o a fattori esterni o, in molti casi, a componenti psicologiche che dettato i nostri comportamenti. Pascal diceva che bisogna scommettere su Dio. Anche se sono ateo, nutro la stessa convinzione del pensatore francese. Credo sia l’ora di scommettere sulla responsabilità delle persone. Bisogna partire dall’idea che le persone vanno rispettate nella capacità di controllare i propri atti. Lo vediamo nella concretezza del vivere: dobbiamo sempre rendere conto di ogni passo che compiamo. Si chiama, per citare Weber: etica della responsabilità, ogni ragionamento parte da lì. Non vado oltre perché non abbiamo il tempo, né lo spazio per aprire un capitolo troppo impegnativo, ma di importanza capitale per il futuro dell’umanità.