Autore: Massimiliano Cannata
“Siamo affetti dalla sindrome del rifiuto per tutto ciò che richiama la qualità. Un fenomeno singolare che viene da lontano, ma che oggi ha assunto i contorni della deriva strutturale”. Il recente allarme lanciato dal sociologo Gian Maria Fara in occasione della presentazione dell’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes a tutta prima potrebbe sembrare una battuta ad effetto, in realtà tocca un nervo scoperto che ci riguarda molto direttamente. Mettere al potere politici preparati è diventata una sfida imprescindibile. E’ infatti molto strano il nostro rapporto con il potere e con lo Stato. Spesso ci lamentiamo degli attuali uomini al governo, inesperti, impreparati, non hanno esperienza di lavoro e si trovano a guidare ministeri di peso e valenza strategica. Magari non li vorremmo neanche come amministratori di condominio, ma di fatto finiamo con accettarli alla guida del Paese, “votandoli” ma senza ammetterlo. Occorre partire da questa “pietosa bugia” connaturata al nostro tratto antropologico, retaggio di antiche dominazioni che hanno annacquato la nostra fiducia nelle istituzioni e dalla considerazione di Fara per comprendere a fondo il saggio di Irene Tinagli “La grande ignoranza” (ed. Rizzoli), scritto che ha il merito di mettere a nudo uno scenario inquietante. Con dovizia di dati l’autrice fa, infatti, vedere molto bene come non eravamo mai scesi così in basso: l’attuale classe al potere è la meno attrezzata culturalmente dal dopoguerra ad oggi. “Non possiamo stupirci se consideriamo la scarsa preparazione di chi ha in mano la Governance politica. Come si fa a parlare di qualità della democrazia quando siamo il penultimo Paese in Europa per percentuale di laureati, (solo la Romania riesce a fare peggio di noi n.d.r.), mentre non facciamo nulla per rimuovere quegli ostacoli sociali ed economici che dovrebbero permettere a tutti, come prescritto dal dettato costituzionale, di accedere agli studi con pari opportunità?
Il lavoro della Tinagli dovrebbe far molto riflettere anche sulla perdita del ruolo e funzione dei luoghi della formazione tradizionale, che hanno costituito la spina dorsale nella costruzione della leadership e dei profili della dirigenza pubblica. Occorre ripensarli a partire proprio dall’Università che deve diventare un asset strategico per la costruzione di cittadini consapevoli, dalla mente aperta, animati da una visione alta del bene comune e dal senso del progetto.
Un male si badi bene, quello dell’incompetenza dilagante che ha portato fino allo scriteriato elogio della stupidità, fenomeno non solo italiano. Lo dimostra l’allarme lanciato neanche un anno fa da Tom Nichols docente allo U.S. Naval War College e alla Harvard Extention School, che ne “La conoscenza e i suoi nemici” (saggio uscito negli Stati Uniti, tradotto in Italia dalla Luiss University Press e ben presto divenuto un best seller n.d.r.) ha sollevato una domanda destinata a segnare quest’epoca densa di mutazioni: Siamo alla fine della competenza? Colti da un misto di preoccupazione e imbarazzo verrebbe da rispondere positivamente, i numeri, infatti, parlano chiaro: parlamentari, ministri e governi annoverano una bassissima percentuale di laureati, cosa che, per quanto ci riguarda, non avveniva neanche alle origini della Repubblica. Negli anni 50 infatti, in un Paese in cui il tasso medio di istruzione era come è noto molto basso, chi occupava gli scranni dell’aula parlamentare aveva le carte molto più in regola rispetto a quanto avviene ai nostri giorni.
La contraddizione in cui viviamo è drammaticamente palese. La società dell’informazione dovrebbe, infatti, celebrare il sapere, quale molla e combustibile essenziale per far andare avanti il mondo, eppure a forza di ripetere che “uno vale uno”, stiamo trasformando la Rete, da strumento eccezionale di innovazione e partecipazione a meccanismo di pericolosa semplificazione, che porta a una “narcosi dello schermo”. L’individuo è spinto sul baratro dell’ottundimento di ogni autonomia di pensiero, “abbiamo bandito ogni forma di alterità, negato l’altro, per cui ogni spazio della riflessione è ingoiato in una sorta di immanenza satura”. Il risultato è che di questo passo “nessuno varrà niente”, con conseguenze facilmente immaginabili.
Sarà dunque necessario porre un argine alla democrazia delle scorciatoie per tornare a investire sulla competenza. Oggi siamo infatti di fronte a un paradosso: chi vuole mettere al centro la preparazione viene considerato “diverso” e quindi espulso dalla società, con il risultato che si genera una selezione avversa che ostracizza le migliori intelligenze lasciando il campo della politica ai “peggiori”. E’ evidente che così sarà impossibile risalire la china, ricollocando il nostro paese nella posizione che gli spetta, in quanto fondatore dell’Europa e patria della civiltà occidentale.