“Con la proposta di legge n. 182 dell’11 settembre 2019 siamo alle ultime battute in IX Commissione lavoro e pari opportunità del Consiglio regionale. Il testo è stato emendato e votato dai commissari e, una volta approvata la norma finanziaria, passerà all’esame dell’aula. Sono fiduciosa che a breve la Regione Lazio avrà una nuova legge quadro sull’occupazione femminile, quanto mai urgente per far fronte alle nuove sfide del mercato del lavoro. Nel 1977, grazie alla tenacia di Tina Anselmi, il Parlamento italiano approvava la legge n. 603 che ha attuato l’articolo 37 della Costituzione in materia di parità retributiva tra uomini e donne. Oggi in Italia, dopo 43 anni, ancora una donna su due non lavora e il divario salariale raggiunge picchi del 52% di retribuzione in meno per le lavoratrici autonome. La proposta di legge è un tassello del grande lavoro che come Regione Lazio stiamo portando avanti per costruire un mondo a misura di uomini e di donne”.
Eleonora Mattia, Presidente della IX Commissione Lavoro, Formazione, politiche giovanili, pari opportunità, istruzione, diritto allo studio della Regione Lazio, in quest’intervista rilasciata in esclusiva a Cyber Security Trend entra nei contenuti del Progetto di Legge 182 di cui è stata la prima firmataria, che intende mettere fine allo sfruttamento della donna, che opera da protagonista oggi più di ieri sulla duplice delicata frontiera del lavoro e della vita familiare, in un bilanciamento di competenze, affetti e responsabilità che ha degli effetti sulla salute complessiva di tutto il corpo collettivo.
Onorevole, quali scenari si potranno aprire per l’universo femminile quando entrerà in vigore il nuovo strumento normativo?
La legge prevede come dicevo all’inizio molte aree di intervento. Si presenta come una normativa quadro sul macro-tema del lavoro femminile e prevede una sezione dedicata all’imprenditoria femminile che potrà godere di fondi finalizzati al sostegno delle aziende virtuose, così da incentivare la cultura aziendale. C’è una grande attenzione al tema della formazione sia in ambito universitario che di formazione continua, con focus su materie STEM e in generale sui percorsi altamente specializzanti per combattere la segregazione di genere che si manifesta nella scelta degli studi e nelle progressioni di carriera. Sono, inoltre, presenti misure per contrastare l’abbandono lavorativo e incentivare l’occupazione femminile tramite appositi sportelli donna nei centri per l’impiego, il supporto al reinserimento lavorativo delle donne vittime di violenza prese in carico dalla rete regionale dei centri e case rifugio e delle donne disabili, oltre che forme di supporto economico – attuabili tramite lo strumento del microcredito – destinati per tutte le donne in condizioni di disagio sociale.
Più si sale nella scala gerarchica, nelle organizzazioni sia pubbliche che private più si avverte la disparità tra uomo e donna. La legge interverrà anche su questo aspetto?
La sua sollecitazione mi permette di ricordare che lo strumento normativo che abbiamo messo in campo definisce un focus per la rappresentanza paritaria nei luoghi decisionali: abbiamo previsto che in tutte le nomine regionali un genere non potrà essere rappresentato, su scala annuale, per più di 2/3 e abbiamo previsto forme di premialità per i Comuni che nella composizione delle Giunte si impegnano a rispettare la parità tra donne e uomini. Aggiungo infine, per rispondere all’esigenza di conciliare tempi di vita e di lavoro nonchè di bilanciare il carico di lavoro di cura, abbiamo predisposto dei voucher per l’acquisto di servizi di baby sitting in alternativa alla fruizione del congedo parentale (poco retribuito) per le donne e, sempre nella stessa ottica, dei bonus economici per i padri che restano a casa in alternativa alle mamme.
Esistevano in seno alla Regione Lazio esperienze passate di cui vi siete avvalsi o il lavoro della Commissione che Lei presiede è partito praticamente da zero?
E’ sempre molto importante guardare con attenzione e rispetto quello che è stato fatto. In quest’ottica abbiamo, perciò, cercato di recuperare le tante buone pratiche già messe in atto dalla Regione, per renderle strutturali, come per esempio, da ultimo, il criterio delle quattro gare da 190 milioni in cui il 16% del punteggio complessivo sarà riservato alle imprese partecipanti che dimostreranno all’interno del proprio organico la presenza di donne nei ruoli apicali, l’assenza di verbali di conciliazione ed una attenzione per la sostenibilità sociale.
Occupazione femminile in Italia: i dati dell’emergenza
Confermano i dati Censis che siamo tra i paesi con più basso tasso di occupazione femminile: il 57%. Nazioni come la Germania (70%) o la Svezia (addirittura 81%) ci surclassano. Nel Mezzogiorno il dato dell’occupazione femminile si è addirittura fermato a cinquanta anni fa. Quali sono i principali motivi di un gap sicuramente intollerabile?
Secondo il Global gender gap index 2020 – il report che monitora su vari fattori la parità di genere in 153 paesi nel mondo – l’Italia si attesta al 76esimo posto con un punteggio di 0.707 (da 0 a 1). In Europa siamo quasi il fanalino di coda, seguiti solo da Grecia (84), Malta e Cipro (90 e 91). Se ci soffermiamo solo sul dato occupazionale la situazione è complessa: una donna su due non lavora e i divari territoriali sono molto ampi: dal tasso di occupazione minimo del 29,4% in Campania al 65% in Trentino-Alto Adige, a fronte di un dato complessivo per gli uomini (che studiano meno e con risultati sensibilmente inferiori) che è del 73,4%. I fattori alla base di questa evidente disparità sono molteplici. In primis, una cultura che ancora vede nelle donne gli unici soggetti deputati al lavoro di cura e quindi spesso nella condizione di dover rinunciare (perché inconciliabile o non conveniente) al proprio percorso lavorativo al fine di poter assolvere a una “essenziale funzione familiare” come sancito dalla nostra stessa Costituzione all’articolo 37. Al di là, comunque, delle statistiche va tenuto presente che il tasso di occupazione da solo non è sufficiente né a spiegare il problema, né a definire un obiettivo. Quello che serve per le donne è lavoro di qualità, adeguatamente remunerato, con posizioni dirigenziali equamente distribuite, servizi pubblici che supportino le scelte individuali e mettano tutte in condizione di realizzare pienamente se stesse.
Nel suo ultimo saggio il sociologo Domenico De Masi insieme a un folto gruppo di studiosi definisce quella dello Smart Working come la “rivoluzione del lavoro intelligente”. Sul piano teorico, questa la tesi di fono, si apre una porzione di tempo “liberato” dall’ufficio tradizionale cui bisognerà conferire valori, diritti e significato. Nella pratica succede però quello che spesso i testi non prevedono: la percentuale di donne che trovano ancora più faticoso svolgere mansioni e incarichi in tempo di pandemia, operando da casa è pari al doppio degli uomini. Dobbiamo concludere che il COVID ha generato un vero e proprio “impatto di genere”?
Assolutamente sì. C’è un impatto di genere legato ai tassi di mortalità che mostrano come il COVID-19 abbia colpito maggiormente gli uomini, ma che allo stesso tempo siano state le donne a pagare il prezzo più alto sotto svariati punti di vista. Se inizialmente il virus era stato definito come un grande “equalizzatore”, a uno sguardo più attento sulle caratteristiche occupazionali dei settori a rischio (di contagio ed economico) appare un quadro tutt’altro che equo dell’impatto della crisi fra i generi. Di fatto sta accadendo che in un contesto già fragile come quello italiano, la natura asimmetrica di questa crisi rischia di indebolire ulteriormente l’insoddisfacente partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Sono state sempre in primo piano le donne durante questa emergenza che purtroppo non è ancora finita. In primo piano ma anche fatalmente le più esposte con quali conseguenze?
Sicuramente le donne sono state massivamente in prima linea nella lotta al virus, costituendo il 70% della forza lavoro impiegata nei settori sanitario e sociale. Questa evidenza incontrovertibile le ha però sottoposte a una costante esposizione al contagio nelle strutture sanitarie e assistenziali. Data la segregazione verticale di genere del settore, infatti, le donne sono occupate principalmente nelle mansioni a diretto contatto con i pazienti (che sono per altro come sappiamo quelle meno retribuite) mentre gli uomini dominano nelle mansioni decisionali, che si svolgono a distanza da pazienti. Va poi aggiunto che tutte le donne occupate in settori compatibili con modalità di lavoro agile hanno “sofferto” questa nuova dimensione digitale. Se lo smart working presenta sulla carta molti vantaggi in termini di conciliazione dei tempi di vita, in realtà la combinazione con la didattica a distanza e il sovraccarico di lavoro di cura (per i figli, per i parenti anziani e/o malati, per congiunti disabili) ha rappresentato un mix esplosivo a sfavore delle donne.
Smart working e lavoro femminile: un binomio da declinare
Innovazione tecnologica: Smart Working e lavoro femminile come si declina questo rapporto?
Il tema è complesso e anche lo smart working presente molteplici vantaggi, ma anche altrettante insidie. Sicuramente non possiamo prescindere oggi, nel parlarne, dall’esperienza del lockdown. Come è emerso da svariati studi sul tema, si può parlare di un impatto di genere della quarantena e in particolare di un diverso impatto nella rimodulazione delle prestazioni lavorative. Secondo l’inchiesta di “Valore D”, durante la chiusura, una donna su tre ha lavorato più di prima, riuscendo a fatica, e neanche in tutti i casi, a mantenere un equilibrio tra il lavoro e la vita domestica. Basta pensare che tra gli uomini il rapporto è stato di uno su cinque per capire la differenza.
Questa fenomenologia ha un nome: “extreme working” ed è rappresentata dalle difficoltà che connotano la modalità agile, che richiede grande disciplina (tanto che per molti è stata una vera e propria sperimentazione) per assolvere a un carico di lavoro di “cura extra”, declinato in vari modi: supporto alla didattica a distanza, cura e intrattenimento dei bambini più piccoli, cura della casa, dei congiunti malati o non autosufficienti. Si tratta di un’esasperazione di storture preesistenti, aggravate dalla situazione emergenziale.
La tecnologia non doveva essere un’opportunità di miglioramento della qualità del lavoro e della vita?
Non si tratta di demonizzare la tecnologia, sarebbe un atteggiamento sbagliato oltre che miope, così come non dobbiamo pensare che la “gabbia” della pandemia possa essere rappresentata nel lungo termine, dallo smart working. Quello che va analizzato con attenzione è tutto ciò che tale modalità lavorativa svela. Se durante la quarantena è sembrato che il problema potesse riguardare la chiusura della scuola, più in generale la vera questione è la mancanza (o l’eccessivo costo) dei servizi educativi e del tempo pieno. Per essere chiari: il tema che va affrontato non riguarda tanto il maggiore carico di lavoro domestico dovuto alla chiusura in casa, ma che a parità di ore lavorate fuori, la cura degli equilibri e delle esigenze che tengono in piedi gli assetti della famiglia, intesa in senso lato, ricada automaticamente e quasi esclusivamente sulle spalle delle donne. Ritornando al tema centrale della nostra intervista voglio precisare che il principale gap salariale non ha luogo in azienda dove non si ottengono le promozioni o, nel caso delle lavoratrici autonome, nella svalutazione della propria professionalità che comporta parcelle inferiori. Il problema principale è l’ingente e ingiustificabile quota di lavoro non retribuito che viene quotidianamente e per tutta la vita svolto da ciascuna di noi, spesso senza il minimo riconoscimento.
Quello che dice ricade sul terreno molto dibattuto della riforma del welfare. In particolare nell’ambito del cosiddetto work life balance molto deve essere ancora fatto, basti pensare che nell’ultimo anno 37mila donne hanno lasciato il lavoro quest’anno dopo la prima gravidanza. Un dato allarmante. Perché la carriera deve “costare” così tanto alle donne?
I dati su maternità e lavoro sono ancora drammatici e purtroppo nessuna legge da sola, per quanto importante, sarà sufficiente a modificare questo scenario. La parità tra uomini e donne nella società è un obiettivo tanto ambizioso quanto complesso e pertanto richiede un approccio trasversale e multidimensionale in tutte le politiche pubbliche – il cosiddetto gender mainstremining – e in particolare sulle politiche sociali e di welfare che hanno un fortissimo impatto sulla vita delle donne. Per questo sono molto orgogliosa del lavoro fatto, per esempio, con la legge regionale 7/2020, che considero un grande risultato, tra i più gratificanti da quando sono stata eletta.
Ci spiega il motivo di tanta soddisfazione?
Su mia proposta e dopo quarant’anni, abbiamo dato alla Regione una nuova legge sui servizi educativi per la fascia 0-6 anni, la prima legge regionale in Italia che attua il sistema integrato previsto dal decreto legislativo 65/2017 mettendo al centro i diritti delle bambine e dei bambini in maniera paritaria fin dalla tenera età e allo stesso tempo consentendo ai genitori – e alle mamme in particolare – di vivere la genitorialità serenamente, con un welfare di supporto che accompagni il ritorno al lavoro e sostenga la conciliazione dei tempi di vita. Detto in sintesi: la legge mira a contrastare i fenomeni della dispersione scolastica e della povertà educativa, garantendo pari condizioni di accesso e partecipazione ai servizi educativi per le bambine e bambini, senza distinzione alcuna di genere, sesso, etnia, età, disabilità e orientamento religioso delle famiglie, garantendo pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco.
Un cambio di marcia non da poco. Siamo maturi per fare un salto in avanti così forte?
Siamo obbligati a farlo, altrimenti non ci potrà essere un progresso reale della società nel suo complesso. Dietro al testo l’idea è quella di ridare valore sociale alla maternità e alla paternità attraverso un investimento serio in infrastrutture sociali. La sfida di una legge quadro sui servizi per l’infanzia persegue indirettamente l’obiettivo di incrementare l’occupazione femminile migliorando gli strumenti di conciliazione, ma consente anche di ripensare il modello di welfare familiare e redistribuire il carico di lavoro di cura ancora eccessivamente sbilanciato a sfavore delle donne. Certamente è necessario anche un cambiamento nella cultura del lavoro per cui, da una parte, la maternità non dovrà essere più percepita come un ostacolo nella vita lavorativa delle donne e, dall’altra, la paternità deve uscire dall’invisibilità attuale all’interno del percorso lavorativo maschile, acquistando al contempo valore.
Le nuove povertà
“Viviamo in un mondo nel quale le donne sono doppiamente povere, per la loro fatica a entrare nell’universo del lavoro e viverci”. Sono parole tratte dall’ultima enciclica di papa Francesco. Ha ragione il Santo Padre ad insistere con grande energia e continuità su una questione ritenuta da molti osservatori come una delle grandi emergenze del nostro tempo?
Apprezzo molto il fatto che Papa Francesco faccia luce su un tema cruciale come quello della povertà femminile, di cui in Italia si parla molto poco e spesso male. Se, infatti, si discute molto di disoccupazione femminile o di divario salariale, raramente si arriva più a fondo nel riconoscere che ci sono milioni di donne che vivono in condizioni di indigenza o non dispongono di redditi propri. Nel report Istat “Povertà in Italia” emerge chiaramente che a pagare il prezzo più alto dei tassi di disuguaglianza nel Paese sono le donne di cui, nel 2017, 2 milioni e 277 mila vivevano in condizioni di indigenza. A questo bisogna aggiungere che non essendoci indicatori che permettono di misurare la distribuzione delle risorse economiche tra i componenti dei nuclei familiari è difficile dare conto della complessità della povertà femminile, spesso interconnessa ad altri aspetti economici e socio-culturali.
Cosa vuol dire essere “poveri” oggi?
La definizione è molto delicata e complessa. Guardiamo all’universo femminile che stiamo analizzando. Una donna che vive sotto la soglia di povertà non è esclusivamente sinonimo di non avere una dimora o sufficiente denaro a fine mese. Significa anche non lavorare e dover dipendere economicamente da un’altra persona, essere costrette in una relazione malsana o addirittura violenta per avere un tetto sulla testa per sé o per i propri figli, essere una o una donna anziana sola, una donna divorziata con figli a carico, una lavoratrice povera perché sottopagata o occupata in settori poco remunerativi. Questo è un problema sociale, serio e strutturale, che deve trovare spazio nel dibattito pubblico.
La legge di bilancio, ha dichiarato la ministra per le pari opportunità Elena Bonetti, deve farsi carico di alcuni aspetti importanti che vanno dal sostegno dell’imprenditoria femminile, agli asili nido, al rientro delle donne nel mondo del lavoro, al rafforzamento dello studio delle materie che rientrano nella cosiddetta area “STEM”. Occorre varare – ha detto l’esponente dell’esecutivo, un vero e proprio recovery plan della parità di genere. Qual è il suo giudizio in merito all’operato di questo governo?
Il governo sta facendo un enorme lavoro di mediazione e di ascolto per raccogliere nel modo più partecipato possibile la grande opportunità che il Recovery Fund e Next Generation Eu rappresentano. Un tema a cui tengo molto, come è evidente, è quello dell’istruzione. Quella di ampliare, rafforzare e integrare la copertura dell’offerta dei servizi educativi e scolastici per i bambini tra 0 e 6 anni nonché degli interventi a sostegno della genitorialità è una delle priorità che si sono imposte sull’agenda nelle discussioni relative all’utilizzo dei fondi europei, riconoscendo il ruolo centrale della filiera educativa nel dotare i bambini, sin dai primissimi anni di vita, delle competenze necessarie per affrontare gli ostacoli nel loro percorso di vita. Come già ricordato credo che questa sia un aspetto cruciale sul lungo termine per incidere sulle disuguaglianze di genere, rafforzando al contempo le comunità territoriali e sostenendo le famiglie. Al Piano nidi nazionale, si aggiungono due misure che ritengono fondamentali per partire dalla famiglia nel garantire pari opportunità: riforma del congedo di paternità obbligatorio con l’elevazione da 7 giorni a 3 mesi e la gratuità delle spese sostenute nei primi mille giorni di vita dei figli.
Molto aspetti li abbiamo già toccati in questa discussione. Credo sia importante soffermarsi sul capitolo della formazione universitaria, gli incentivi sulle materie STEM e in generale sull’educazione digitale e finanziaria, utile a colmare un altro gap importante che è quello relativo alla cultura tecno-scientifica. Risulterà decisivo guardare oltre il Recovery Fund, per adottare un meccanismo di valutazione preliminare dell’impatto di genere degli interventi che saranno finanziati. Non dimentichiamoci che le politiche pubbliche non sono neutre, hanno, infatti, un impatto differente su uomini e donne ed è quanto mai urgente che questo venga riconosciuto e tenuto in debito conto.
Autore: Massimiliano Cannata