Sicurezza e sviluppo umano nella città del futuro

Professor Ratti, volendo guardare all’orizzonte della città del futuro, partirei dal tema forse più controverso e dibattuto di questo momento: la sicurezza che divide non solo gli studiosi, ma anche la politica. In contesti abitativi dominati da Reti, sensori, IOT, quali scenari si aprono sul fronte della privacy e della possibile sottrazioni di dati sensibili?

Si stanno aprendo su questo fronte scenari potenzialmente inquietanti, se non gestiti in modo appropriato. Mi viene in mente il Calvino della “Memoria del Mondo”, e quel racconto di una società distopica che, per molti versi, ha punti di contatto con il nostro presente. Di fatto abbiamo già perso la nostra privacy, anche se non ce ne siamo accorti – e si tratta di un’osservazione che tocca tutti gli aspetti delle nostre vite, non solo le città. Dobbiamo ora evitare che la situazione degeneri: penso in particolare alla enorme asimmetria che esiste – quando si parla di accesso e possesso dei dati – tra pochi giganti informatici e tutti gli altri attori sociali. Per fortuna negli ultimi anni, soprattutto in Europa, è emersa una maggiore sensibilità rispetto a questi temi. Pensiamo al recente provvedimento GDPR-General Data Protection Regulation, che potrebbe cambiare le regole del gioco mondiali.

Gli architetti possono svolgere un ruolo nella governance strategica del rischio informatico, aspetto sempre più al centro dell’attenzione se si guarda alla dimensione di una paura collettiva crescente rispetto a fenomeni come il terrorismo internazionale che stanno di fatto modificando non solo il paesaggio urbano, ma anche le abitudini e gli stili di vita?

Credo che possano e debbano farlo, portando con sé quel bagaglio non soltanto tecnico ma anche umanistico che è proprio del nostro mestiere. Se non riusciranno in questo intento, verranno rimpiazzati da altre figure che presentano un taglio più squisitamente tecnico/burocratico: e questo, al di là di ogni interesse corporativo, credo sarebbe una perdita per tutti.

“La città rimane comunque un’onda in movimento”, mi rifaccio a una celebre definizione del sociologo Franco Ferrarotti. Probabilmente la città ritratta, quella raccontata da studiosi come Franco Purini, che si rifà a un modello rinascimentale non esiste più. Nella prima parte del saggio viene utilizzata una definizione complessa: Futurecraft, una sorta di tavolozza proiettata su un futuro che ci riguarda. La domanda è: come, e dove vivremo domani?

Non volendo predire il domani, evito di rispondere alla domanda! Mi limito a un commento: sono convinto che la “forma urbis” di cui mi chiedeva prima non sarà sottoposta a stravolgimenti eccessivi. I “Fundamentals” descritti da Rem Koolhaas alla Biennale di Venezia del 2014 sono destinati a restare tali, se non altro per limiti fisici e funzionali insormontabili. A cambiare insomma non sarà tanto l’aspetto, quanto le modalità di relazione all’interno dello spazio: come ci spostiamo, ci incontriamo, discutiamo, lavoriamo, o facciamo acquisti. Futurecraft vuol dire tracciare un processo collaborativo di definizione del domani. Un domani non da predire, ma da costruire insieme.

Un aspetto particolarmente interessante riguarda la definizione di wiki city, (di cui si parla nella prima parte del saggio) studiata nel duplice paradigma urbano: top-down / botton-up, tali modelli dovrebbero tendere a un’integrazione. A suo avviso, in una dimensione urbana in divenire come quella che viviamo, ci potrà essere spazio per una cittadinanza attiva?

Mi auguro di sì. Le reti ci offrono molte nuove opportunità, ma sta a noi coglierle.

In altri termini è possibile mettere al centro dell’innovazione tecnologica il cittadino che, come si sta vedendo nei più diversi contesti, appare sempre più escluso dai processi di decisione politica?

Credo che sia fondamentale: la “smart city” non si costruisce solo dall’alto. Intendiamoci, il pubblico ha di certo un ruolo da giocare. Ad esempio il sostegno alla ricerca accademica, o l’intervento in ambiti che possono apparire meno “attraenti” al capitale di rischio – come lo smaltimento dei rifiuti o la gestione delle acque. In generale però credo che i governi dovrebbero soprattutto impiegare i loro fondi per promuovere una cittadinanza attiva e per sviluppare un ecosistema di innovazione organica rivolto alla città, simile a quello che sta crescendo naturalmente in Silicon Valley. Si tratta, come si vede, più di un approccio da basso che di schemi dall’alto verso il basso.

Le tecnologie come fattore abilitante

Un altro aspetto molto dibattuto riguarda l’utilizzazione delle tecnologie come fattore abilitante, decisivo per ridurre la polarizzazione della società, attenuare il divario tra ricchi e poveri e per superare il classico scarto tra centro e periferia. A che punto siamo su questo delicato aspetto?

Anche in questo caso si tratta di sfide aperte, che possono prendere una piega o l’altra a seconda delle scelte che riusciremo a compiere. Sono

personalmente ottimista, anche se credo che una regolamentazione sia necessaria. Pensiamo all’impatto dell’intelligenza artificiale e dei processi di automazione sul mondo del lavoro. Un famoso studio dell’università di Oxford ha stimato che quasi la metà dei lavori oggi esistenti saranno resi obsoleti nei prossimi decenni. La risposta sta probabilmente nell’educazione, e in altre due parole chiave: transizione e redistribuzione.

La città è sempre stato il luogo di elezione di architetti, sociologi, urbanisti, oggi i grandi contesti sono sempre più popolati da giganti dell’informatica. Quali sono le conseguenze di questo mutamento destinato non solo ad incidere sul paesaggio urbano e antropologico, ma anche più in generale sugli equilibri di potere?

Non credo che i giganti dell’informatica – almeno per ora – costituiscano una minaccia per le città. Noto invece qualcosa di molto positivo: un approccio sempre più “anti disciplinare”. Partiamo dalle università. Qualche decennio fa, le questioni digitali erano appannaggio dei soli dipartimenti di informatica e quelle urbane delle scuole di architettura. Poi, gradualmente, abbiamo assistito a una ibridazione che ha chiamato in causa altri professionisti. Il risultato è quell’approccio“anti disciplinare”che ci è molto caro, e per il quale oggi, nel nostro laboratorio di ricerca al MIT convivono architetti e informatici, fisici e sociologi, matematici e designer.

Tra futuristi e gondolieri

Sanità, traffico, reti mobili, personal communication sono tutti ambiti strategici di manifestazione dell’innovazione. Occorreranno professionalità multidisciplinari insieme a una grande capacità di visione per gestire l’elevato grado di complessità che caratterizza la rete dei sistemi ad ogni livello. Lei si muove da una parte all’altra dell’Oceano, l’Italia sul terreno della qualità professionale, delle competenze e della competitività in che posizione si colloca?

Credo che l’Italia sia un Paese che – come ha scritto il mio amico Giuliano da Empoli – si divide tra “futuristi e gondolieri”: tra chi vorrebbe buttar via tutto per lanciarsi nel domani e chi invece si aggrappa al passato. Per innovare veramente invece è necessario partire dal presente e migliorarlo. Si tratta di quell’atteggiamento già delineato da Italo Calvino. Torno a citare il grande scrittore ricordando un passaggio finale delle “Città Invisibili”: un modo di procedere“rischioso esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” In modo più specifico, se parliamo di qualità professionale, la situazione nelle nostre Università è un po’ a macchia di leopardo e cambia molto anche solo da un dipartimento all’altro. Detto questo, mi sembra che i Politecnici di Torino e Milano mantengano sempre un alto profilo: è da lì che provengono molte delle persone che lavorano con noi a Torino, Boston e Singapore. Ma per fortuna si trovano eccellenze un po’ ovunque nel Paese.

La riemersione di uno spazio pubblico partecipato

Per Senseable city cosa si intende? Si tratta di uno stadio di superamento delle Smart city, definizione che comincia ad essere criticata da molti studiosi?

Non mi piace il nome Smart City per le sue assonanze tecnocratiche, a cui non mi sento vicino. Senseable city è una città capace di innovare, ma anche sensibile, con la sua vocazione a integrare aspetti umanistici nella dinamica di sviluppo digitale della città. Quando abbiamo aperto il nostro laboratorio presso il MIT, nel 2004 erano ancora in pochi a parlare di Smart City: non esisteva l’iPhone, e a malapena si sapeva cosa fosse Facebook. Non saprei quindi se si tratta di un superamento: però mi fa piacere che gli aspetti per i quali si criticano le città intelligenti oggi sono quelli che avevamo già individuato quindici anni fa.

Credevamo, sulla scorta dell’insegnamento di antropologi come Marc Augé, che l’unica realtà era quella dei “non-luoghi”. Invece Lei ci ricorda che i bit non hanno cancellato la distanza e hanno ridato significato ai luoghi. È in questa riemersione di uno spazio pubblico partecipato, segnato non dall’omologazione ma dalla differenza antropologica e urbana che si può realizzare il “diritto alla città” auspicato da Henri Lefebvre?

È vero, negli anni Novanta si credeva anche che Internet avrebbe cancellato lo spazio fisico. Non è stato affatto così. Il diritto alla città così come proposto da Lefebvre è una chiara ispirazione, ma sarebbe semplicistico negare che come progettisti agiamo in un contesto socio-economico del tutto diverso e molto più complesso rispetto ad allora.

Hackerare la città, il saggio si conclude così. È un auspicio, una provocazione, la ricerca di un nuovo soggetto politico che possa aiutarci a diventare autentici “costruttori di futuro”?

È un invito all’azione e alla discussione collettiva: in linea con il principio di Futurecraft di cui abbiamo parlato all’inizio!

Autore: Massimiliano Cannata

Carlo Ratti

Carlo Ratti, ingegnere architetto, è docente al Massachusetts Institute of Technology, dove ha fondato il Senseable City Lab. È inoltre direttore dello studio internazionale di Progettazione “Carlo Ratti Associati” la cui sede italiana sorge a Torino. Nella “Città di Domani”, saggio scritto con Matthew Claudel, ricercatore presso il Senseable City Lab, lo studioso affronta il delicato incrocio che lega sviluppo tecnologico, progettazione e visione del futuro. Al centro dell’analisi l’evoluzione dei contesti urbani attraversati dalle reti, che vivono una trasformazione profonda che prelude a nuovi equilibri ancora per molti aspetti difficili da comprendere. Hackerare la città è l’invito provocatorio all’azione e alla discussione collettiva di un architetto, tecnologo e pensatore di straordinaria vivacità, capace di saltellare da un capo all’altro del globo per affrontare i temi dell’innovazione sociale a tutto tondo.

 

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