In questi mesi, i lavori di gran parte degli specialisti europei della cyber security e i loro risvolti mediatici destinati al grande pubblico si sono focalizzati su tre punti chiave: la guerra globale di info-intox 4.0 e le sue conseguenze sui nostri ecosistemi, le lezioni da trarre da WannaCry e da GoldenEye e, infine, le ultime normative europee (GDPR, PSD2, NIS) e il da farsi per essere compliant rimanendo resilienti.
A giocare, purtroppo, il ruolo di cenerentola in questo quadro multinazionale sono, più che mai, le relazioni interumane nella vita professionale e privata nella loro “variante digitale”. Le risorse umane delle aziende e delle amministrazioni statali, alle quali spetta il compito di selezionare impiegati idonei e di risolvere i conflitti interpersonali tra i dipendenti, hanno difficoltà ad applicare certe dinamiche del mondo fisico a quello digitale. Come molte altre categorie professionali preesistenti al web, le “HR” sono state colpite dal falso quanto pesante preconcetto che sin dal “2.0” aveva cambiato tutto ovvero che l’anonimato di certi comportamenti indecenti, se non criminali, faceva si che questi, anche se palesemente effettuati intra muros, non erano più di loro competenza perché mancano le prove oggettive per determinarne gli autori.
Lo stesso vale anche, in grande parte, per le autorità di sicurezza dello Stato che hanno il compito di risolvere i reati perpetrati a danno dei singoli cittadini. In questo campo, gli agenti addestrati a capire il modus vivendi legato alla trasformazione digitale sono ancora, in tutta Europa, ultra- minoritari in paragone con gli agenti formati “all’antica”, cioè usi a risolvere casistiche legate a reati svolti nel mondo fisico. Tra le forze statali osserviamo però due campi che si sono quasi completamente “digitalizzati”, grazie a enormi dotazioni tecniche e umane, ovvero i servizi volti a combattere la pedofilia online e a contrastare le frodi finanziarie in rete.
In questo contesto, la lettura del primo studio esaustivo sulla violenza sessuale digitale contro le donne adulte, ci lascia con un amarissimo gusto di ribellione e di costernazione. Illustrata con centinaia di dati concreti, casistiche reali e il loro triste decalogo di vittime umane, la ricerca di Anastasia Powell e Nicola Henry1 ci offre un capolavoro pionieristico ed esaustivo. Lo studio molto preciso è tratto dall’analisi parallela delle realtà di due Stati: il Regno Unito e l’Australia, scelti sia per la mole dei documenti disponibili (sinora quasi interamente trascurati) sia per le loro diversità socio-culturali.
É da lodare già l’idea stessa di scegliere un paese importante della“Vecchia Europa”, con una cultura e una mentalità ancorata ad un ricchissimo passato statale, morale, filosofico e giuridico, e un “Paese nuovo” con una propria cultura dove spicca un’importante componente adattativa, destinata a corrispondere al meglio ad una realtà sociale costituita da un “melting pot” multiculturale di successo in permanente mutazione.
Come viene sottolineato dallo studio, il vettore digitale non ha né fatto nascere né visceralmente cambiato la natura delle offese e dei crimini a carattere sessuale: li facilita e ne amplifica la profusione, accentuando il vittimismo delle vittime che, colpite nel mondo digitale e non quello fisico, sono ancor meno propense a denunciare il fatto.
Molto importanti risultano essere i dati dalle analisi: ormai, la violenza sessuale si esprime in Australia, UK e USA nel mondo del lavoro con una percentuale uguale a quella del mondo casalingo o di quello della famiglia in senso più esteso (tra 6 e 8% dei casi) (p. 249), anche se la percentuale rimane ridotta rispetto a quella delle stesse violenze a opera di sconosciuti (tra i 38 e 27 % dei casi) o di amici /conoscenti (tra 26 e 18% dei casi).
Vediamo qui una ripartizione che fa drammaticamente salire gli abusi sul luogo del lavoro e nella propria cerchia di conoscenze, rispetto a un mondo predigitale dove le violenze coniugali erano predominanti, assieme alle violenze subite da parte di sconosciuti. L’anonimato e la relativa difficoltà di prevenire il passaggio all’atto spingono naturalmente gli istinti più bassi di persone conosciute e la barriera fisica viene a sparire.
Lo studio ribadisce anche l’ineguaglianza socio-professionale tra uomini e donne, che sentiamo troppo spesso negare o minimizzare. Ora, se teniamo conto che lo studio è stato eseguito in paesi anglosassoni, non osiamo nemmeno immaginare i risultati di uno studio similare in paesi più «maschilisti». Purtroppo gli Stati, ben lungi dal trovare nel digitale una delle soluzioni per ridurre questa ineguaglianza, ne hanno potenziato loro malgrado le motivazioni accettando la profusione di manifesti di “gender hate”. Peggio ancora, un paese come l’Australia, che è pioniere nella prevenzione del bullismo e del sexting / grooming per il mondo dei minori (bambini e adolescenti) con risultati tangibili e miglioramenti reali anno dopo anno, può servirci da esempio per quanto nociva sia stata, quasi ovunque, la scelta di creare con minori e adulti due nicchie distinte mentre i problemi sono quasi tutti uguali. Per chiara volontà politica e mancanza di lungimiranza, i mezzi tecnici e umani sono così stati massicciamente impiegati esclusivamente per la protezione dei bambini e degli adolescenti, lasciando a poche ONG il compito di svolgere una missione quasi identica nel mondo, molto più poliforme e meno strutturato, degli adulti.
Come riassumono bene gli autori alla fine del volume, “Communications technologies gives us a frightening glimpse into the deeply embedded racial, gendered, class and sexual prejudices that continue to permeate the collective consciousness; paradoxically they also offer a provocative assortment of tools and platforms for facilitating vigilantism, activism and informal justice.” (p. 290).
Se veniamo ora all’Italia, osserviamo che non è troppo tardi per agire, contrariamente ad altri Stati, perché è uno dei paesi europei che vanta tra i più bassi tassi reali di violenza contro le donne (i.e. analisi fatte sulla base dei ricoverati o morti/popolazione e non a denunce penali / popolazione) e possiede pure una posizione in classifica ben sotto la media europea in quello che riguarda i tassi analitici eseguiti dalla FRA su di un campionario di 43’000 donne2 (Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali).
Ci vuole però, come sottolinea lo studio citato, una volontà comune dello Stato e del settore privato. L’analisi di Anastasia Powell e Nicola Henry dimostra bene che per agire contro il fenomeno aggravato dall’uso dei media digitali, si possono usare proprio gli stessi media, facendo quello che gli anglosassoni chiamano “digital justice” o “justice through recognition”. In tale modo, sia l’elaborazione con le vittime di testi di prevenzione che, soprattutto, la diffusione di esempi di vittime possono sensibilizzare rapidamente ed efficacemente un pubblico molto ampio: è il fenomeno del “survivor selfie” che, aiutato da ONG e gruppi di volontari, prende una dimensione virale.
Il sistema accademico dovrà riformarsi rapidamente in modo da proporre al mercato specialisti in Risorse Umane al passo con le tecnologie e coi danni che queste possono portare all’interno di un ecosistema professionale3.
Tale ruolo potrebbe essere svolto in partenariato con CISO e CSO che, a loro volta, lottano contro le varie forme di spionaggio industriale e di hacking che usano come vettore principale proprio le vulnerabilità umane degli impiegati tramite tecniche di ingegneria sociale. Sebbene, come sottolineato dagli autori, dal preambolo alle conclusioni, il volume costituisce un “technofeminist and criminological framework”, i suoi metodi, la sua pertinenza, e, last but not least, il modo esaustivo di affrontare il fenomeno della violenza sessuale contro le donne, sono un elemento fondamentale per chi deve assicurare il benessere e la buona interazione socioprofessionale del personale. La concretizzazione della violenza, come il suicidio, hanno un lungo percorso digitale, che influisce in modo deleterio sin dal primo giorno nell’ambiente dove lavora la vittima e, forse, pure l’aggressore.
1 Anastasia Powell, Nicola Henry, Sexual Violence in a Digital Age (PalgraveStudies in Cybercrime and Cybersecurity), Melbourne 2017 (323 pp.)
2 http://fra.europa.eu/en/publications-and-resources/data-and-maps/survey- data-explorer-violence-against-women-survey
3 In questo senso, tra gli esempi implementati, si veda il programma pionieristico e trans-disciplinare della Rutgers University (NJ, USA) : http://endsexualviolence. rutgers.edu/