Autore: Massimiliano Cannata
I bit e la luna è una delle tante interessanti metafore del saggio di Mafe de Baggis, affascinante e di facile lettura. Il titolo Luminol (ed. Hoepli) riporta il lettore non a caso al linguaggio dei film polizieschi e dei gialli, che molto successo riscuotono in questo periodo. Basti pensare ai personaggi intramontabili di Agatha Christie, George Simenon, Alfred Hitchcock ormai divenuti dei classici, al grande successo delle serie TV, dominatori dell’audience, che hanno come protagonista l’ispettore Barnaby, il tenente Colombo, il commissario Cordier e per avvicinarci alle nostre latitudini il maresciallo Rocca, Rocco Schiavone, fino all’exploit ineguagliabile del Montalbano televisivo, prodotto dalla poderosa fantasia di Andrea Camilleri. “Basta una semplice riflessione – mi spiega l’autrice – per comprendere la ratio che ha portato alla realizzazione di questo lavoro. A cosa serve il Luminol? A imparare a guardare con attenzione la società che ci circonda, senza cedere alla tirannia della pigrizia e della prima impressione. I media digitali ci permettono di sentire i pensieri delle persone, i loro comportamenti quando pensano di essere invisibili. È incredibile la facilità con cui crediamo che siano le tecnologie a farci comportare male, come se fossimo in un brutto film horror. In realtà le tecnologie fanno emergere chi siamo davvero, chi siamo sempre stati: i veri valori, i veri comportamenti, le vere mancanze. Questo non vuol dire che siano uno specchio, a meno di non pensare che sia uno specchio stregato, perché quello che vediamo ci sembra sempre altro da noi. Sembra che siano sempre gli altri a comportarsi male e quello che vediamo ci condiziona, peggiorandoci quando è sbagliato, migliorandoci quando è sano. Per questo dico che i media digitali non creano i comportamenti, ma quando evidenziano violenza e aggressività condizionano comunque la società, perché peggiorano lo spazio pubblico, in una spirale al ribasso”.
Come viene detto molto bene nel corso della trattazione, oggi si avverte una difficoltà di comprensione della nuova realtà in cui siamo immersi. “Non basta pigiare un bottone per far succedere qualcosa on line”, questa verità non è, purtroppo, evidente a tutti. In particolare quella che preoccupa è l’inadeguatezza delle élites non solo di casa nostra, poco preparate a muoversi in un universo in cui viviamo perennemente on life. I “nuovi alfabeti” del digitale sono diversi dal nostro alfabeto, che ha le caratteristiche dell’univocità e dell’unicità. Vengono citati nel testo molto opportunamente gli studi di Peppino Ortoleva che si soffermava sulla dimensione della complessità, piuttosto che di unilateralità. La sfida di comprendere la sintassi della trasformazione investe in prima battuta il mondo delle aziende. Anche su questo aspetto l’analisi della De Baggis è straordinariamente lucida. “La vera difficoltà, nelle organizzazioni produttive non tanto quella di padroneggiare strumenti e linguaggi. È accettare di dover cedere il palcoscenico a ogni singolo cliente, ciascuno con la sua personalità, proponendo una storia dove il prodotto (o la comunicazione del prodotto) giocano un ruolo minimale ma importante nella soluzione di un problema. È il ruolo dello storytelling, che non vuol dire produrre contenuti piacevoli e interessanti (si può fare anche senza narrazioni), ma intrecciare la vita delle persone al customer journey di un prodotto e farglielo scoprire (sui social media) o trovare (sui motori di ricerca).
Quando Pierre Levy, in un saggio di successo, qualche anno fa parlava del Virtuale, come di una nuova categoria dell’essere con cui bisognava fare i conti, che andava affiancata alle vecchie categorie dell’ontologia classica da Aristotele in poi. Aveva probabilmente visto giusto. Spazio, tempo, relazione, sono categorie fluide nell’era delle reti. Ma la categoria che cade più direttamente sotto la lente della De Baggis è quella del tempo, che “nessuno dimostra di capire davvero. Il tempo del digitale, che è un tempo rarefatto e sospeso, non veloce e in fuga. È un tempo da supereroi, in cui puoi fermare tutto e andare avanti e indietro, ma solo se sai che puoi farlo. Non vuole saperlo nessuno: abbiamo creduto alla bufala della rete veloce e fasulla e, così facendo, contribuiamo a renderla tale davvero”.
Aspetto particolarmente interessante è il riferimento al celebre saggio di Eli Pariser (Il filtro quello che Internet ci nasconde, ed. Il Saggiatore, n.d.r.) in cui per la prima volta appare il termine “bolla” o “camera dell’eco”, per definire quell’alone di verità creata che si gonfia alimentandosi nella Rete. In questo tempo dei ragni la sfida della formazione diventa cruciale per orientarsi e comprendere i percorsi di sviluppo della civiltà. Il metodo migliore, ci ricorda in conclusione l’autrice, viene dalle scienze umane, dall’etnografia che è “lo studio antropologico dei comportamenti umani e della scrittura. Internet è uno straordinario campo da gioco per l’antropologo ma anche per il curioso, l’importante essere disposti a considerare i comportamenti osservati come indizi da analizzare e interpretare e non come prove. Per quanto riguarda le bolle, per esempio, uno sguardo privo di pregiudizi dovrebbe confrontare le bolle digitali con le bolle analogiche prima di trarre qualsiasi conclusione”. Più equilibrio e meno slogan dunque se non vogliamo “finire nella rete” dei pregiudizi, delle false convinzioni e delle frasi fatte. “La rete è uno strumento che fa parte del mondo, non un mistero da svelare: il mistero sono i comportamenti umani che la rete aiuta a conoscere e a capire meglio”. Se solo ce lo ricordassimo più spesso forse qualche passo avanti lo avremmo finalmente compiuto.