Le ferite di Freud
[…] Che siate o no degli scienziati, la coscienza è un importante mistero. Per ognuno di noi, la nostra esperienza cosciente è tutto ciò che c’è. Senza di essa, nulla rimane: niente mondo, niente sé, niente di interiore o esteriore. Immaginate che una versione futura di me, magari non molto lontana, vi offra l’occasione della vita. Posso sostituire il vostro cervello con una macchina identica sotto ogni aspetto, in modo tale che nessuno dall’esterno possa notare la differenza. Questa nuova macchina ha molti vantaggi – è immune dal deterioramento e magari vi permette di vivere per sempre.Ma c’è un inghippo. Poiché nemmeno il futuro-me è sicuro di come il cervello dia origine alla coscienza, non posso garantirvi che avrete alcuna esperienza cosciente, nel caso doveste accettare questa offerta. Magari l’avrete, se la coscienza dipende solamente dalla capacità funzionale, dal potere e dalla complessità della circuiteria cerebrale, o magari no, se la coscienza dipende da un materiale biologico specifico – dai neuroni, per esempio. Ovviamente, poiché il vostro cervello-macchina conduce a un comportamento identico sotto ogni aspetto, quando chiedo al vostro nuovo-io se è cosciente, il nuovo-io risponde di sì. Ma cosa succederebbe se, malgrado la risposta, la vita – per voi – non fosse più vissuta in prima persona?
Ho il sospetto che non accettereste l’offerta. Senza coscienza, non farebbe alcuna differenza per voi vivere altri cinque anni o cinquecento. Per tutto quel tempo, non ci sarebbe nulla che si proverebbe a essere voi.
Al di là dei giochi filosofici, l’importanza pratica di comprendere le basi cerebrali della coscienza è facile da riconoscere. L’anestesia generale è da considerarsi tra le più grandi invenzioni di tutti i tempi. Sfortunatamente, disturbi di coscienza angoscianti possono essere legati a danni cerebrali e malattie mentali per un numero sempre più alto di persone, me incluso, che vanno incontro a tali condizioni. E, per ognuno di noi, le esperienze coscienti cambiano nel corso della vita, dalla confusione rigogliosa e spumeggiante dei primi momenti di vita all’apparente, probabilmente illusoria e di certo non universale, chiarezza della vita adulta, fino alla nostra deriva finale nella graduale – e per alcuni disorientantemente rapida – dissoluzione del sé, allorché si verifica il decadimento neurodegenerativo. In ogni stadio di questo processo esistete, ma l’idea che esista un singolo e unico sé cosciente (un’anima?) che persiste nel tempo potrebbe essere grossolanamente sbagliata. Infatti, uno degli aspetti più coinvolgenti del mistero della coscienza è la natura del sé. La coscienza sarebbe possibile senza autocoscienza, e se lo fosse sarebbe ancora così importante?
Le risposte a domande difficili come queste hanno molte implicazioni sul modo in cui pensiamo il mondo e la vita che esso contiene. Quando arriva la coscienza durante lo sviluppo? Emerge alla nascita o è presente persino nell’utero? E cosa dire della coscienza negli animali non umani – non solo nei primati e negli altri mammiferi, ma in creature eteree come i polpi e magari anche in organismi semplici come i vermi nematodi o i batteri? Esiste un qualcosa che si prova a essere un’Escherichia coli o una spigola? E le macchine del futuro? Qui dobbiamo preoccuparci non solo del potere che le forme nuove di intelligenza artificiale stanno avendo su di noi, ma anche del se e quando dovremo assumere una posizione etica nei loro confronti. Per me, tali domande evocano l’inspiegabile compassione che ho provato guardando Dave Bowman distruggere la personalità di HAL nel film 2001: Odissea nello spazio, con il semplice gesto di rimuovere le sue banche dati, una per una. Nella maggiore empatia evocata dalle disavventure dei replicanti di Ridley Scott in Blade Runner, si trova un indizio sull’importanza della nostra natura di macchine viventi per l’esperienza di essere un sé cosciente.
Questo libro si occupa della neuroscienza della coscienza: il tentativo di comprendere come l’universo interno dell’esperienza soggettiva sia legato a, e possa essere spiegato nei termini di, processi biologici e fisici che si sviluppano in cervelli e corpi. Questo progetto mi ha affascinato per tutto il corso della mia carriera e credo che abbia ora raggiunto un punto in cui dei barlumi di risposte stanno cominciando a emergere […]
Uso il termine “wetware” per sottolineare che i cervelli non sono computer fatti di carne. Sono macchine chimiche tanto quanto sono reti elettriche. Ciascun cervello non è mai esistito senza essere parte di un corpo vivente, immerso nel suo ambiente e in interazione con esso – un ambiente che in molti casi contiene altri cervelli incorporati. La spiegazione delle proprietà della coscienza in termini di meccanismi biofisici richiede la comprensione che i cervelli – e le menti – sono sistemi incorporati e integrati. Alla fine, voglio lasciarvi con una nuova concezione del sé – l’aspetto della coscienza che è probabilmente per ciascuno di noi il più importante. Una tradizione influente, che risale perlomeno a Cartesio nel XVII secolo, sostiene che gli animali non umani sarebbero privi di ipseità cosciente perché non avrebbero una mente razionale in grado di guidare il loro comportamento. Sarebbero “macchine bestiali”: automi fatti di carne, ma privi della capacità di riflettere su se stessi.
Non sono affatto d’accordo […]
Nonostante la sua reputazione sia macchiata tra i neuroscienziati, Sigmund Freud aveva ragione su molte cose. Guardando a ritroso nella storia della scienza, ha identificato tre “ferite” che sono state inferte alla percezione di sé della specie umana, ciascuna delle quali rappresenta un avanzamento scientifico decisivo a cui si è resistito per lungo tempo. La prima ferita si deve a Copernico, il quale, con la sua teoria eliocentrica, ha mostrato che è la Terra a ruotare intorno al Sole, e non viceversa. Così facendo ci ha reso consapevoli di non essere al centro dell’Universo. Siamo soltanto un granello disperso in qualche parte della vastità, un punto celeste sospeso nell’abisso. Poi è venuto Darwin, che ci ha rivelato che condividiamo un antenato comune con tutti gli altri esseri viventi, un’idea che, sorprendentemente, trova ancora oggi resistenza in molte parti del mondo. Immodestamente, Freud imputa la terza ferita contro l’eccezionalismo umano alla sua teoria della mente inconscia, che sfidava l’idea che la nostra vita mentale fosse sotto il controllo cosciente, razionale. Benché si sbagliasse su non pochi dettagli, Freud era nel giusto nel sottolineare che una spiegazione naturalistica della mente e della coscienza avrebbe rappresentato un’ulteriore, se non l’ultima, detronizzazione dell’umanità.
Questi cambiamenti nel modo di vedere noi stessi devono essere salutati con favore. Più avanziamo nella comprensione di noi stessi, più cresce il nostro senso di stupore, nonché la nostra capacità di vedere noi stessi non come separati dal resto della natura, ma come parte integrante di essa.
Le nostre esperienze coscienti sono parte della natura proprio come lo sono i nostri corpi e come lo è il nostro mondo. Quando la vita finisce, finisce anche la coscienza. Nel pensare a questo sono riportato alla mia esperienza – alla mia non esperienza – dell’anestesia. All’oblio che ne è seguito, forse confortante, ma pur sempre oblio. Lo scrittore Julian Barnes lo dice in modo magistrale nella sua meditazione sulla morte. Quando arriva la fine della coscienza, non c’è più nulla – davvero nulla – da temere.
Autore: Anil Seth*
*Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo uno stralcio della bellissima prefazione dell’autore.